venerdì 9 marzo 2012

Bhagavân Shrî Sathya Sai Baba - DISCORSI DIVINI anni 1981 e 1983 nei quali vengono citate tutte le SITUAZIONI DELL'UMANITA' CHE PORTANO AL MUTAMENTO DEL KARMA del 1982, ATTRAVERSO UN AUMENTO ESPONENZIALE DELLE ATTIVITA' EGOICHE, RISPETTO AGLI EMARGINATI DEL PIANETA E ALLE LORO ESIGENZE DI SOPRAVVIVENZA !!!

PER RICERCHE APPROFONDITE SULL'ANNO 1982 CITATO, http://media.radiosai.org/www/index.html  e http://www.sathyasai.it  NON PRESENTANO RIFERIMENTI SPECIFICI A DISCORSI DI SWAMI DEL 1982 SUL MUTAMENTO UNIVERSALE DEL KARMA INDIVIDUALE!



Discorso Divino
Bhagavân Shrî Sathya Sai Baba
aprile 1981

Râma illumina tutti i ricercatori



La sorgente eterna della Beatitudine è l’Âtma

L’uomo ha fatto molti progressi nell’utilizzare le risorse naturali della terra per migliorare le condizioni di vita, ma né l’individuo né la società hanno trovato la via verso la pace e l’appagamento interiori.

Abbandonate la tendenza ad aumentare egoisticamente quanto possedete
L’invidia e l’avidità hanno inquinato le relazioni tra le nazioni e tra gli individui cancellando la consapevolezza dell’unità che sottende a tutta la Creazione. La causa principale di questa situazione disastrosa è un egoismo smisurato. Ognuno cerca di appropriarsi di qualunque cosa aumenti il suo potere e le sue comodità. L’ego sta rendendo tutti delle marionette; le parole e le azioni degli uomini riflettono questa tendenza all’accaparramento. Ogni mossa è determinata soltanto dai bisogni egoistici; non si fa alcun passo che non promuova il proprio interesse personale. Allo scopo di restaurare la pace nell’individuo e nella società, bisogna purificare la mente, in cui nascono i desideri e si prendono le decisioni, dal suo attaccamento all’ego. La mente ha i desideri come trama e ordito; quando essi sono orientati egoisticamente, si sprecano tempo e sforzi, il dovere viene trascurato, il corpo e le sue capacità usati male, e tutto questo mentre la vita viene sprecata e si accorcia ogni giorno. Con ogni secondo che passa, la vita gocciola via come acqua da un vaso bucato; l’uomo, però, non si rende conto della tragedia che incombe continuamente.
Incarnazioni dell’Âtma Universale!
L’uomo ha in sé la capacità di diventare un essere puro e divino, ma, per ignoranza e testardaggine, è diventato ottuso; ha incatenato se stesso a idee meschine cadendo così nella rete della paura e del dolore. Le Upanishad esortano l’uomo a svegliarsi e divenire padrone di se stesso.

Uttishtha jâgrata prâpya varânnibodhata
Sorgete, svegliatevi, accostatevi agli uomini nobili e imparate da loro il segreto per raggiungere la Divinità.

L’uomo è sopraffatto dal sonno dell’ignoranza; gli anziani, che conoscono l’eredità preziosa che egli sta sprecando, lo devono svegliare e istruire. L’ignoranza è causata dalla triade dei desideri (îshânatraya): attaccamento al coniuge, ai figli e alle ricchezze. Logicamente una persona deve avere il necessario per condurre una vita semplice, ma la ricchezza, accumulata oltre livelli ragionevoli, inebria l’io e nutre abitudini e desideri malvagi. Le risorse economiche devono essere considerate in amministrazione fiduciaria, da utilizzare per attività benefiche dirette alla promozione del vivere in rettitudine e assolvere i propri doveri verso la società.

La rinuncia è Vero Yoga
Bhârat è stata molto fortunata; nei secoli, ha avuto veggenti e saggi che hanno sostenuto il valore degli ideali elevati, e ha avuto l’esempio di Avatara (Manifestazioni) della Divinità. Ha sempre messo in primo piano l’Âtma che è il nucleo di ogni essere, un insegnamento che può infondere coraggio, appagamento, pace e armonia. È davvero patetico vedere gente che segue i capricci della mente e va in cerca della rovina invece di usare l’intelletto per discriminare tra il transitorio e il permanente; la mente dovrebbe esser controllata dall’intelletto, altrimenti le decisioni malvagie porteranno al dolore. Prendete decisioni buone e raccogliete la gioia. Si può certamente ottenere la pace duratura desistendo dai desideri e dalla tendenza a perseguirli. Se la mente è lasciata libera e padrona, l’uomo viene condotto da un’iniquità all’altra e perde il rispetto di se stesso, tiene in poco conto la legge, la giustizia, le regole e le prescrizioni del comportamento sociale e la sua vita diventa un correre convulso da un posto a un altro, da una cosa all’altra. Soltanto il distacco può dare la felicità. La rinuncia (tyâga) è Vero Yoga. Tre qualità vanno eliminate prima che l’uomo possa giungere al suo ruolo effettivo: l’ira che soffoca la saggezza, la concupiscenza che inquina l’azione, e l’avidità che distrugge l’amore per Dio e per l’uomo. La pietra di paragone che definisce un’azione meritoria è la rinuncia: se l’azione mira a se stessi, se aiuta l’ego a gonfiarsi, è un’azione errata.

Liberatevi dell’ira, della concupiscenza e dell’avidità
Ciò di cui Bhârat ha più bisogno oggi non è un credo o un “…ismo” nuovi, né una nuova società o un ideale diverso, ma uomini e donne che amino molto le motivazioni e i sentimenti puri e li seguano, persone che rinuncino all’ira, alla concupiscenza, all’avidità. La storia di Râma incarna questo messaggio vitale; è la crema dei Veda, un vero oceano di latte. Vâlmîki ha chiamato “Kânda”, un nome che significa “ la lunghezza della canna da zucchero”, le sezioni dell’epica Râmâyana; per quanto storta la canna possa essere, ogni suo pezzo è dolce come ogni altro pezzo. Similmente, l’epica è tutta ugualmente dolce e accattivante qualunque situazione venga descritta o emozione raccontata, che si tratti dell’incoronazione o dell’esilio, della vittoria o della sconfitta, dell’eroismo o dello scoramento, dell’amore o dell’odio, della gioia o del dolore. Nella storia di Râma ci sono due correnti di sentimento o stato d’animo predominanti: la corrente della Compassione rappresentata da Râma e quella dell’Amore rispecchiata da Lakshmana. È la fusione delle due a evocare la Beatitudine (Ânanda). Ânanda è la natura vera e propria di Râma; Egli è Bhagavân (Dio) Stesso anche se Vâlmîki non lo ha dichiarato esplicitamente, riferendosi a Lui come avente valore pari a Vishnu, ma non come Vishnu Stesso. È soltanto per bocca dei figli dello stesso Râma che il mistero viene rivelato. “Bhagavân” è composto di tre termini, di cui “Bhâ” significa “splendore”, “ga” indica “manifestazione” e “van” “Colui che è capace”, quindi “Colui che ha il potere di manifestare lo splendore” (Jyoti), la Jyoti Divina, la Jyoti dell’Âtma. Egli è anche “Colui da cui questo universo è emerso, e che è intento a sostenerlo” (Sambharta). Tutti coloro che adorano Râma come Creatore e Protettore dell’universo e come “Colui che emana l’Intelligenza e lo Splendore Cosmici”, hanno il diritto di essere riconosciuti come devoti (bhakta). Oggi, però, i ricercatori sono in maggioranza devoti a mezzo servizio, non sono sempre in unione con il Signore (satatam yoginah): sono degli yogin al mattino, dei bhogin (gaudenti) a mezzodì e dei rogin (malati) la sera!

Râma ha dato l’esempio per tutti
Râma illumina ogni ricercatore nel campo spirituale, in quanto Egli mise in pratica giornalmente tutto ciò che riteneva giusto e quindi costituisce l’esempio per ognuno, in ambito domestico, sociale, nazionale e umano. Egli sostenne l’ideale più alto di figlio ubbidiente e di capo ricettivo alle reazioni dei Suoi sottoposti. Come figlio, Râma osservò il dovere di rispettare la parola data dal padre (pitruvâkya paripâlana). La radice è la parola del genitore, il frutto è la Liberazione (moksha). La Liberazione è lo scopo finale, il destino inevitabile. Il germoglio trova la sua meta inevitabile nella nascita del frutto e nell’evoluzione di questo fino alla maturazione e alla dolcezza; questi tre stadi si susseguono. Come attestano i Veda, la gemma dell’azione (karma) diventa dapprima il frutto nascente dell’adorazione (upâsana), poi matura nel frutto della Saggezza (Jñâna). Râma mostrò nella Sua stessa vita questo processo dell’evoluzione interiore dell’anima nella sua consapevolezza. Egli fu l’incarnazione dell’aderenza assoluta alla Verità (Satya) e alla Rettitudine (Dharma). Solamente coloro che sono colmi di devozione per Râma possono immergersi in quella gloria. Egli è il grandioso ideale su cui potete meditare. Facendo così, potete assorbire e sviluppare le Sue virtù lentamente e silenziosamente. Un albero cresce in silenzio per anni prima di dar frutti; non li produce sul momento, in un istante. La palma da cocco, l’albero del mango e il giaca1 sono di questo tipo e i loro doni sono molti e pieni di nutrimento. Ci sono piante che danno frutti molto presto e muoiono poco dopo. La fama dei personaggi divini cresce con ogni parola che dicono e ogni azione che accettano di fare. La grandezza di Râma risplende luminosa persino dopo tanti secoli e brillerà fulgidamente ancora per ere. Râma significa “Colui che piace”. Niente compiace l’uomo più del suo Âtma che è sorgente di gioia inesauribile ed eterna. Bisogna preferire la consapevolezza dell’Âtma e la beatitudine che la sua consapevolezza dà, rispetto a tutte le altre gioie momentanee. L’Upanishad dice: “L’immortalità si ottiene soltanto con il sacrificio (tyâgenaike amrutattvamânasu).

Lal Bagh, Bengaluru, aprile 1981,
Golden Jubilee Hall

(Da “Sanâtana Sârathi”, aprile 2011)


1. Artocarpus heterophyllus, albero originario delle pendici meridionali dell'Himâlaya orientale (India). Oggi è diffuso alle basse latitudini in tutto il sud-est asiatico, sulla costa settentrionale dell'Australia, sulla costa atlantica del Brasile e, in misura minore, in altre regioni tropicali, inclusi alcuni Paesi dell’Africa. È una pianta tropicale della famiglia delle Moraceae, coltivata per il suo frutto, il più grande esistente in natura tra quelli che crescono dagli alberi. In italiano viene chiamato “giaca” (dal portoghese “jaca”) o “catala” (denominazione derivata dall’hindî “katahal”), ma è anche comunemente usata la denominazione inglese “jackfruit”.

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Discorso Divino
Bhagavân Shrî Sathya Sai Baba
31 agosto 1983

Perché viene l’Avatâr?


Coltivate l’amore intenso per Dio al fine di raggiungerLo

Deho devâlayah prokto jîvo devassanâtanah
“Il corpo è un tempio, e Dio vi risiede.”

L’Eterno Supremo risiede nel tempio del corpo umano. Tutti gli Avatâr assumono questa forma perché esso è sommamente sacro. Nella Gîtâ, il Signore Krishna dichiara di essere, nell’uomo, il potere di discriminazione o intelletto (buddhi). L’uomo non può ottenere la grandezza neppure se acquisisce tutte le forme di ricchezza: è l’intelletto a farlo grande. Chi non mette in atto questo potere di discriminazione non è migliore degli uccelli o delle bestie. Dio discende come Avatâr, che significa “discesa”, per elevare l’uomo a un livello superiore. Come una madre si china per sollevare il suo bambino e coccolarlo, Dio scende al livello umano per sollevare l’uomo che è intrappolato nella rete di effimeri desideri e insignificanti miraggi. Egli gli insegna come diventare divino. Questo è l’insegnamento della Gîtâ, della Bibbia e delle altre Scritture, ma queste non possono redimere l’uomo da sole; servono soltanto da cartelli indicatori, mostrano la via da prendere per raggiungere il Divino.

I pellegrinaggi non cancellano i vostri peccati
Tutti gli Avatâr sono Pûnrnâvatâr (Incarnazioni di Dio in tutta la Sua Gloria). Hanno tutti gli attributi del Divino, ma le Scritture (le Shâstra) affermano che soltanto il Signore Krishna è stato l’Incarnazione completa con tutti e sedici gli aspetti del Divino. Nonostante la Sua onnipotenza, Krishna era facilmente avvicinabile dai Suoi devoti e si sottometteva a loro. Quando siamo colmi di devozione, il Signore è pronto a servirci come un domestico. Il Signore è sempre pronto ad assoggettarSi a qualunque tipo di difficoltà o supplizio per proteggere o aiutare i Suoi devoti. Anche le Scritture dichiarano che il Divino si sottomette alla devozione. Molti devoti hanno cantato canzoni in lode a Krishna e si sono rammaricati di non essere stati così fortunati da nascere durante il Suo Avvento, in modo da godere della Sua divina musica e assistere alle Sue imprese, ma gli ottusi scettici non possono abbandonare i loro meschini desideri e cercare la beatitudine che deriva dalla devozione al Divino.
Molti devoti fanno pellegrinaggi a Benares, a Prayâg o altri luoghi sacri nella speranza che i loro peccati vengano così perdonati, ma i pellegrinaggi non sono il mezzo per lavar via i peccati; ciò che necessita è la purificazione del cuore e della mente. Se la mente viene purificata con la disciplina spirituale, la Divinità si rivela spontaneamente. Mîrâ comunicò lo stesso messaggio quando cantò il bhajan in cui si sollecita la mente ad andare verso il Gange e lo Yamunâ. Questi non sono i due fiumi dell’India del Nord, ma le nâdî “idâ” e “pingalâ” (i canali sottili della colonna vertebrale) nel corpo umano. Il punto centrale tra le sopracciglia è il prayâg, il luogo in cui i due convergono, concentrandosi sul quale si può scoprire Krishna. Mîrâ afferma che questo punto è fresco, puro e indisturbato. L’inspirazione (pûraka) e l’espirazione (rechaka) rappresentano ciò che dovremmo accettare e rifiutare, mentre il trattenere il respiro (kumbhaka) indica ciò a cui ci dovremmo tener stretti, vale a dire la Divinità. Bisogna accogliere tutto quello che è puro e rigettare la totalità dell’impuro.

Il Signore risponde all’anelito dei Suoi devoti

La Gîtâ ha stabilito tre direttive: non aver paura delle difficoltà, non dimenticare Dio, non adorare ciò che è falso. È aderendo a queste tre ingiunzioni che, attraverso le ere, innumerevoli devoti hanno cercato di raggiungere il Divino tramite la disciplina spirituale. Il Bhâgavata mostra come il Signore risponda al desiderio dei devoti e lenisca il tormento che patiscono per la separazione da Lui. Quando Krishna partì per Mathurâ, le gopî (pastorelle) si struggevano nel dolore incapaci di sopportare la separazione e guardavano continuamente in quella direzione in attesa di vederLo tornare. Un giorno, videro una nube di polvere e pensarono che Egli avesse alla fine ceduto e stesse tornando a Gokul. Esse videro un uomo su un carro che si fermò, ma non si trattava di Krishna. Avendo consegnato i loro cuori completamente al Signore Supremo, le mandriane non avevano in animo neppure di guardare lo straniero che altri non era che Uddhava, l’amico carissimo di Krishna. Questi, consapevole dell’angoscia delle gopî, aveva mandato Uddhava a consolarle. Non appena fu sceso dal carro, egli prese a esortarle: “O pastorelle! Voi ignorate le Scritture, non avete saggezza, per cui soffrite per Krishna. Quando conoscerete le Scritture, comprenderete che Egli è sempre con voi, che risiede nel vostro cuore. Invece di gioire della Sua presenza in voi, vi struggete per la Sua Forma; questo è dovuto alla vostra ignoranza. Krishna mi ha inviato affinché vi insegni la scienza dello yoga.”

La devozione vera delle gopî
Le gopî non ritenevano corretto parlare direttamente a uno sconosciuto e adottarono l’espediente di inviare un’ape a dare la loro risposta a Uddhava, per cui dissero: “O ape! Queste parole alimentano il fuoco che brucia in noi per la separazione da Krishna. Non vogliamo sentirne altre.” Allora Uddhava porse loro la lettera di Krishna e disse: “Qui c’è il messaggio di Krishna per voi: almeno leggete questo.” Una di loro disse subito: “O ape! Noi siamo paesane illetterate, siamo strette dal dolore. Mostraci Krishna.” E un’altra lamentò: “L’angoscia per l’assenza di Krishna ci brucia; se tocchiamo la Sua lettera potremmo ridurla in cenere. Non osiamo toccarla.” Un’altra ancora disse: “Le lacrime dei nostri occhi macchieranno i caratteri della missiva di Krishna che sono come perle: non possiamo sopportare di vedere il Suo messaggio macchiato.” Uddhava allora disse: “Ascoltate almeno il messaggio. Io vi insegnerò lo yoga.” Una gopî, incapace di controllare il suo dolore, rispose rivolgendosi all’ape: “O ape, noi abbiamo una sola mente ed essa è andata a Mathurâ con Krishna. Se avessimo quattro menti potremmo dedicarne una allo yoga, un’altra a qualche altro argomento e così via, ma l’unica mente che avevamo è stata offerta a Lui. Non abbiamo spazio per alcuna lezione di yoga.” Uddhava rimase stupefatto nel constatare la loro devozione unidirezionale a Krishna.
L’essenza di tutti i Veda e delle Shâstra è l’unidirezionalità; essa porta alla devozione diretta solamente a Dio. Uddhava rifletté sul fatto di non aver coltivato la devozione unidirezionale che le gopî mostravano. Tra di esse, le più devote a Krishna erano Râdhâ e Nîraja. Prima di andar via, Uddhava incontrò Râdhâ. Ella pensava soltanto a Krishna e implorava una Sua visione per alleviare l’angoscia nel cuore. A essa, che giaceva incosciente su una duna di sabbia, chiese se non avesse alcun messaggio per Krishna. Râdhâ,, riprendendosi un poco, lamentò:

“Se Tu fossi un albero, che cresce in alto
io mi aggrapperei a Te come un rampicante;
se fossi un fiore che sboccia, volerei su di Te come un’ape;
se fossi il monte Meru, scenderei a valle da Te come un fiume;
se fossi il cielo infinito, sarei in Te come una stella;
se fossi l’oceano senza fondo, mi fonderei in Te come un fiume.
Dove sei, o Krishna?
Dove sei andato, o Krishna?
Non hai pietà, o Krishna, Krishna.”

L’amore per Dio è il mezzo e lo scopo
Nel vedere Râdhâ in quello stato pietoso, il cuore di Uddhava si sciolse. Egli comprese che Krishna l’aveva mandato in missione presso le gopî per fargli imparare che cosa sia la vera devozione. Capì che Krishna aveva inscenato quella commedia per dimostrargli che anche coloro che sono molto esperti nelle Shâstra devono apprendere la verità nascosta della vera devozione dall’esempio di quella unidirezionale e genuina esibita dalle gopî. L’amore per Dio è il mezzo e lo scopo: questo è il segreto svelato dalle gopî. Esse vedevano l’amore in tutto, lo riconoscevano nella musica del flauto di Krishna che ne riempiva il mondo e ne inondava la terra inaridita. Dio è in tutti, ma, per raggiungerLo, c’è una sola via: quella di amarLo intensamente. Il giorno della nascita di Krishna in noi è quello in cui ci impegniamo a maturare un simile amore per Dio. Krishna non nasce ogni giorno di Gokulâshtamî: Egli nasce in noi quando cerchiamo di sviluppare l’Amore Divino come strumento atto a superare i nostri vincoli. Vivere secondo gli Insegnamenti di Krishna è il vero modo di celebrare il Suo Compleanno.

Prashânti Nilayam , 31 agosto 1983,
Festività di Krishnâshtamî
2° Discorso

(Da “Sanâtana Sârathi”, agosto 2011)


<*> LUCE INFINITA DELL'AMORE, DELLA COMPASSIONE E DELLA VERITA'<*>


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